Il nuovo e a tratti convincente album rock firmato: The Darkness!
Pinewood smile è forse l'album più contorto dei Darkness...
Arriva una ventata rock fresca con il nuovo album firmato The Darkness: “The Pinewood smile”.
Qualcuno è convinto che abbiano perso tutta la loro verve rock d’un tempo ma in realtà oggi si presentano con un album compatto, maturo e che suona bene con alcune eccellenze di grande spessore.
All the Pretty girls, è una scarica di adrenalina pura, un’apertura non solo di un album importante, ma anche un’ipotetica apertura live. La canzone si sorregge su un ritmo incalzante e il solito ritornello, collante fra le parti più dure e quelle più melodiche.
Buccaneers of Hisponiola è uno dei brani più riusciti dell’album: partenza non tirata ma che poggia tutto su una batteria incalzante. Il brano è suddiviso quindi in una prima parte più trattenuta per poi esplodere in un arcobaleno di chitarre che portano il brano a confezionare una vera e proprio delizia rock.
Solid Gold è invece il brano che diciamo ha fatto da apripista all’album, per me un vero e proprio capolavoro di stile, ritmo, il tutto impreziosito da un assolo di chitarra preciso e a tratti complesso. Il ritornello è da stadio, una canzone perfetta per questo periodo della band inglese. Lo stile forse richiama troppo gli Ac/Dc, ma non si arriva mai ad una similitudine così chiara. I falsetti di Hopkins sono poi il marchio di fabbrica.
Southem trains è un punk rock a colpi di fulmine che non lascia respiro all’ascoltatore. Qui la band inglese punta su un inciso corale psichedelico, si ha la netta sensazione che i Darkness vogliano sorprenderci puntando tutta sulla potenza senza badare alla forma. Nella seconda parte una parte più melodica che fra da contraltare al vortice dannato del brano.
Con Why don’t the beautiful cry? la band inglese si dà una pausa dal rock e si proietta verso una ballata pop-rock, forse a dire il vero troppo pop, quasi stonasse con il resto dell’album. Non è la classica power-ballad alla quale ci hanno abituato i Darkness, ma un mid-tempo leggero che ci riporta negli anni ’70.
Japanese prisoner of love ci porta su canoni più usuali. La batteria esplode in un rock abbastanza articolato che si diverte a spingere forte per poi frenare in parti più melodiche. Questo è il brano dove si sente moltissimo l’influenza dei Queen, a dire il vero forse troppo, ma l’assolo di chitarra sul finale ridona la giusta dimensione per un pezzo che convince a metà.
Lay down with me, Barbara, frena ancora una volta la carica rock che in questo punto dell’album è davvero bassa, così bassa che per la seconda volta ci si ritrova ad una ballata che stenta a decollare, un brano importante per la band ma che appare un’esperimento rock poco affine con la struttura di base dell’album.
I wish I was in heaven, cerca di rimescolare le carte in tavola. Batteria incalzante verso un inciso che invece di alzare il tiro lo abbassa, ma ci sta tutto questo cambio, è il pezzo perfetto per giocare su un’alternanza che ormai è chiaro: è un leitmotiv di quest’album. Ci si domanda però: “dopo i primi brani tirati, ritornerà la power track?”
Ed eccoci subito accontentati. Arriva il secondo capolavoro rock dell’album: Happines. Inizio con chitarra acustica, sembra un brano perso nella sua melodia dolce e invece poi arriva il cambio di ritmo, la batteria che incalza prepotentemente e quel ritornello da urlare in faccia alla notte durante il concerto. Un brano rock con assoli che vanno e vengono. Siamo nel mondo del rock pulito, senza eccessi o accelerate hard, ma ci siamo, è un puzzle completo questa traccia. E poi, cazzo, quell’assolo verso il finale è da paura.
Stamped of love rimescola ancora una volta le carte. Cambiano i volumi, le intenzioni, forse in alcuni tratti dell’album molto orientati sul pop rock. In realtà questo è un pezzo intimo, unplugged, forse chissà, prove per il futuro? La traccia risulta essere non da buttare, ma cosa volete che vi dica, mi ci devo abituare un po’.
Uniball alla traccia numero 11. Ecco, a mio parere il terzo capolavoro dell’album: inizio sostenuto, strofe taglienti e chitarre precise a scandire il tempo. E poi? E poi arriva uno degli incisi più belli di sempre: sognante, da urlo, da ripetere all’infinito senza pause. Il brano è un’onda che travolge l’ascoltatore. Siamo sulla vetta più alta del Pinewod smile.
I Darkness vogliono continuare a sorprenderci. Rack of Glam è uno di quei rock vecchio stampo che sono perfetti per i live. Brano suonato da Dio, un climax perfetto per il solito inciso che si stampa in testa. Inciso corale e urlato a muso duro. Canzone che si sostiene su un ritmo rock lento e costante, ecco dove la band fa capire che le idee ci sono!
Seagulls cala il ritmo e ci riporta nel mondo degli unplugged. Questo è un album molto variegato che ha una costante: o rockettone, a tratti anche phunk, oppure ballate acustiche. Manca la power ballad, una scelta precisa da parte della rock band londinese. Il brano è comunque strutturato bene, forse il migliore per quanto riguarda le ballate, una sorta di lento per innamorati che si accende sul finale tirato da un assolo non invadente e delicato.
Rock in space. Benvenuti negli anni ’80. A chiudere l’album c’è un brano dalle nostalgiche pulsioni al rock stile anni ’80. Una chiusura giusta con ritmo continuo spezzato dal falsetto di Hawkins che diventa collante fra parte parlata e strumentale.
Pinewood smile è forse l’album più contorto dei Darkness, un album che alza l’asticella della rock band, qui alle prese con vari esperimenti. Sembra uno di quegli album anni ’70 dove il rock era a tratti psichedelico e a tratti ballata vera e propria. Forse i fans storici faranno fatica ad accettare alcune scelte stilistiche coraggiose, ma dall’altra parte, son sicuro, capiranno le intenzioni.
Voto 7